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Vita

 

(tratto dal  volume: Cenni sulla vita di San Rocco della Croce e sull’antichità del suo culto nella città di Scilla in Calabria, pubblicato dal can. Giovanni Minasi nel 1886)

LA VITA


Sul cadere del secolo XIII l'antica città di Mont­pellier con le vicine terre e castelli erano sotto il dominio di Giovanni della Croce, nobilissimo Signore che discendeva, come vogliono taluni eruditi, dalla regia stirpe de' Franchi. Ma più che dalla nobiltà de' natali, Giovanni era dotato di rare virtù, e perciò era di esempio e di guida a tutti i suoi vassalli, i quali in Lui ravvisavano un vero padre e maestro nell’esercizio della cristiana pietà. Questo principe era si unito in matrimonio con una donna del pari nobile e virtuosa a nome Libera o Liberia, con la quale menava cristia­namente i suoi giorni; e non avendo avuto figli, di che quei pii genitori erano assai dolenti, pregavano inces­santemente il Signore che si degnasse appagare questo loro ardente desiderio. E ne furono esauditi. Nell’anno 1295 Libera diè alla luce un vago bambino, cui fu posto il nome di Roque o Rocco. Ma Iddio, per mostrare visibilmente che quel bambino era un dono non della terra, ma tutto del cielo, con maraviglia segnò il suo petto dalla parte del cuore con una croce di color rosso; il che chiaro rivelava che quel cuore, così prodigiosa­mente segnato, dovea ardere di carità verso Iddio e verso i suoi fratelli.
Manifestatosi Rocco sin dal suo nascere in una maniera tanto prodigiosa, non è a dire con quanta cura ed amore sin dalla più tenera età venisse educato da' suoi genitori, i quali ponevano per lui ogni studio e diligenza in una soda e cristiana educazione. Al che non ebbero ad impiegare grande fatica; imperocchè la sua virtuosa genitrice ben si avvide che Rocco era già prevenuto dalle celesti bene­dizioni, e cresceva di giorno in giorno nella virtù e nella santità per guisa da sorpassare l'aspettazione di tutti. E con maraviglia fu osservato che col crescere negli anni e nella santità vie più si dilatava quel segno di croce, che sin dalla sua nascita portava impresso sul cuore.
Infatti sin dalla più tenera età cominciò a sacrifi­care tutto se stesso a Dio, con continue penitenze mortificando la sua carne per vivificarla solo nell'intima unione col suo Creatore. E quest’amore alla penitenza, alle mortificazioni cresceva in Lui al pari degli anni. Il giovanetto non ignorava la sua condizione; e pure nato da illustre prosapia, dimorando tra le delizie ed il fasto di una corte, chiamato al governo di uno stato di cui doveva sostenere lo splendore, circondato da tutto ciò che può maggiormente allettare il cuore ine­sperto di un giovane ed a trascinarlo ciecamente per la via de' piaceri e delle voluttà, pure Egli nel cuor suo a tutto rinunzia, tutto sacrifica a Dio unico oggetto di ogni suo desiderio, di tutto 1'amor suo; donde veniva che nel suo cuore vie più si accendeva la fiamma del divino amore, la quale vedevasi espressa nella serenità del suo angelico volto, in cui chiaramente si rivelava la letizia di un animo soddisfatto, e da cui traspariva la purezza di quell’anima verginale.
Ma non potendo con le proprie forze pervenire a tal alto grado di virtù e di carità verso il suo Dio, glielo domandava con continue e fervorose preghiere. Di qui 1'amore in Lui alla solitudine, al ritiro, ove sfogava 1'animo suo col Signore, chiedendogli lumi e forza per disprezzare S81npre più le cose caduche di questo mondo, ed invece amare unicamente Lui eterna carità. Ecco perché Egli facilmente vinceva il desiderio degl'infantili trastulli, e le ripugnanze che quell’età, avida di diletti ed incapace di fermezza, sperimenta per l’applicazione e per gli esercizi di pietà. Anzi, allorquando veniva obbligato da' suoi genitori a com­parire fra nobili Signori, in mezzo al brio, alla pompa ed al fasto della sua corte, Egli vi si vedeva sempre umile, ed in mezzo a' suoi vassalli manteneva il suo cuore scevro dell’ambizione del soprastare; e fra gli incentivi del lusso, fra i pericoli di tanti svariati spet­tacoli, Egli non solo con la verecondia degli sguardi e con la fuga de' pericoli conservava illibato il fiore della innocenza, ma, quel che in un giovanotto è affatto mirabile, tutto Egli sacrificava per il desiderio di perfezionare sempre più 1'animo suo, e renderlo degno da offrirsi in olocausto al Creatore. All’amore di con­sacrare tutto se stesso a Dio univa ancor quello di sacrificar se stesso per i suoi fratelli, e specialmente per i più infelici ed indigenti il cui aspetto muovevalo al pianto. Onde li soccorreva del bisognevole, ed allora provava gran consolazione, quando era certo di aver sollevato dalle loro miserie i poveri soffrenti.
Nell’esercizio di sì belle virtù menava Rocco i suoi giorni, quando, non avendo ancor Egli raggiunto il ventesimo anno dell’età sua, veniva colpito da grave sciagura, giacchè il Signore chiamava a sè il virtuoso suo genitore; ed indi a poco gli toccò di versare amare lagrime sulla tomba della diletta sua madre. Nel dolore di tanta irreparabile perdita, Rocco, vie più nauseato delle umane grandezze, stabilì nel suo cuore di abban­donare il mondo.
E ad esempio di quel Serafino di nome Francesco d'Assisi, che chiamato da Dio alla perfezione, volle spogliarsi di ogni cosa terrena per ricopiare in sè medesimo la vita povera di Gesù Cristo, Rocco rinunzia generoso il principato allo zio, le sue ricchezze dispensa a' poverelli, e con un ruvido abito di pellegrino, da povero sconosciuto si dilunga dalla ridente sua patria, e sol tirato dall’amor di Gesù muove sollecito i suoi passi verso Roma, per versare sulle preziose tombe degli Apostoli e de' martiri lagrime di tenerezza, e dalle loro ceneri prender lena maggiore a sacrificar sempre meglio la sua vita in bene dell’umanità, per cui il pietoso Redentore si offriva su di una Croce.
Ei quindi traversò pedestre il Narbonese, la Pro­venza, le Alpi, sostentando la vita nel disastroso e lungo viaggio col mendicare un tozzo di pane per disfamarsi, e col cercare qualche povero giaciglio per riposarsi; meschino sollievo che spesse fiate venivagli negato dalla barbarie degli uomini.
Giunto in Italia il nostro Santo pellegrino con la accesa brama di recarsi subito in Roma, mentre attra­versa la Toscana, viene a conoscere che la piccola città di Acquapendente era invasa dalla peste. Ecco che il Signore gli apre la via per esercitarsi nella carità verso i suoi tra vagliati fratelli, ed Egli all'istante corre in aiuto di tanti infelici, e con zelo ed amore incomincia l'apostolato della sua ardente carità. Colà giunto, per meglio rendersi utile a tutti, pose la sua dimora nel pubblico ospedale, ed ivi acconciatosi con un servo a nome Vincenzo, sembrò un Angelo consolatore in tanta sciagura; ed il suo sacrifizio in sollievo de' suoi fratelli fu di tanto gradimento al Signore, che volle manifestarlo con un evidente miracolo; giacchè col solo segno della Croce Rocco liberava dalla morte quegli appestati. Compresi da stupore quei cittadini per tanto inaspettato prodigio, tutti correano a Lui per essere liberati dalla peste col segno salutare della redenzione, ed insieme per ringraziarlo ed acclamarlo qual salvatore della loro città. Ma cessata in breve la peste, il Santo fuggendo gli applausi degli uomini, tosto esce da quella città e muove i suoi passi verso Roma, suprema meta del suo pellegrinaggio. Se non che deviò verso Cesena travagliata anch’essa dal fiero morbo. Qui ancora Rocco spiega tutto il suo zelo e tutto il suo amore in pro degli appestati, per sollevarli da' loro patimenti, e guarirli finalmente col segno della Croce; anzi all'appressarsi di Lui a Cesena cominciò prima a rimettersi dallo infuriare, e poscia cessava del tutto il fiero contagio. In breve, Egli sembrava la immagine del Redentore che transibat et curabat omnes.
Di là finalmente si avvia a Roma, ove era già precorsa la fama della sua carità e delle sue miracolose guarigioni. Ivi la pestilenza menava orrenda strage; giacchè il fiero morbo trovando in quella popolosa città più vasto campo ad incrudelire, diè al Santo pellegrino 1'opportunità di spiegare con più ardente zelo il suo apostolato. Voler qui narrare tutte le sue gesta sarebbe cosa non pur difficile, Ina direi quasi impossibile dopo il volgere di tanti secoli che ce ne han tramandato poche e poco particolareggiate memorie.


Basta solo accennare che appena arrivato colà il Santo, e nelle case de' privati e ne' pubblici ospedali e sinanco nelle strade accorreva in aiuto di tutti gli infelici che venivano colpiti dal contagioso malore, e tutti soccorreva con la pietosa sua opera, spesso ancora guarendoli col segno della Croce: ed altri infine, i quali tremavano alla vista de' pericoli e della morte, rassicurava a fidar solo in Dio vero nostro conforto, speranza e vita. Sarebbe poi anche difficile narrare in quanta rinomanza fosse venuto il Santo Pellegrino nell'eterna Città, e quanto sia stata celebrata la sua carità fraterna. Ma Rocco nemico degli applausi mon­dani, cessata la peste, visitate le Basiliche e le tombe degli Apostoli e de' Martiri, dopo aver con la preghiera infervorato l'animo suo nel Divino amore, tosto abban­dona la santa Città, e corre frettoloso in Rimini che era in preda al fiero morbo. Colà giunto, può dirsi che al solo suo apparire scomparve il ferale contagio.
Se non che più gravi fatiche e più dure prove doveva Egli sostenere in Piacenza, ove, così disponendo il Signore, la peste infieriva desolatrice.
Miserando spettacolo! Alle civili discordie, alle guerre fratricide, ad una crudelissima carestia era in Piacenza sopraggiunta in quel tempo per colmo di ogni sventura la pestilenza. I cittadini estenuati nelle forze per le continue guerre distruttrici e per la deficienza de' viveri, colpiti dal fiero malore, cadevano in gran numero e nella città e nelle vicine campagne, giacchè in tanta desolazione la peste vie più ingagliardiva.
Orribile perciò la strage de' poveri Piacentini, i quali privi di ogni umano soccorso miseramente peri­vano. Tutti fuggivano lasciando e morti e moribondi ed infermi abbandonati nelle case e nelle vie, senza soccorso alcuno; giacchè lo spavento di una morte imminente estingueva negli animi i sensi più affettuosi della natura.
In tanta desolazione eccovi Rocco, in soccorso della umanità afflitta. Egli si fa tutto a tutti, abbracciando tutti nella sua inesauribile carità senza accettar mai tregua e riposo; e chi conforta a soffrire con pazienza gli acerbi spasimi, ed a chi appresta i più efficaci rimedi, ed a chi rende i più umili uffici, e tutti infine munisce col segno della Croce. Già la pestilenza incomincia a decrescere, già innumerevoli vittime vengono strappate dalle fauci della morte col salutare e miracoloso rimedio adoperato da Rocco, quando volendo il Signore sottoporre a più dure prove la virtù del suo servo, a guisa del pazientissimo Giobbe, permise che anche Egli provasse nel suo corpo gli stessi acerbissimi dolori di quegl’infelici, che aveva con tanta carità confortati e miracolosamente guariti.
Dimorava in quel tempo il Santo Pellegrino nello Ospedale di Betlem, colà in Piacenza, quando un giorno svegliatosi dal sonno si sente toccato dal morbo ferale. Rocco a tale improvviso accidente adora profondamente gl’imperscrutabili giudizi di Dio, e fra i crudeli spasimi che tollera con rassegnazione, non cerca, non trova conforto, se non col rivolgere la mente al suo Signore, pregandolo a render lo degno di soffrire più acerbi dolori per Lui.
Ed il Signore esaudì la sua preghiera; anzi volendo che Rocco si perfezionasse sempre più nella pazienza per meritare un premio maggiore; permise che venisse in uggia a quel’istessi che aveva beneficati, i quali, vedutolo colpito dalla peste, con inaudita gratitudine non solamente lo lasciarono privo di ogni aiuto, ma ancora lo espulsero da quel luogo; ed il Santo rasse­gnato tutto in Dio, uscito dall’ospedale e dalla città, si ritirò in una oscura selva presso il villaggio di Sarmato, ove trovata una capanna, vi si adagiò sdraiandosi sulla nuda terra. Perirà dunque Rocco solo e derelitto in questa solitudine? Oh no, chè altro dispone l'adorabile volontà di Dio. Ed ecco che con acqua prodigiosa mitiga i dolori della infermità di lui e sinanco lo conforta di cibo per via prodigiosa.
Colà vicino eravi il palazzo di un ricco signore piacentino a nome Gottardo della nobile famiglia de' Palastrelli. Or un cane di quel Signore, rapito un pane che trova vasi sulla mensa, tosto si avvia per la vicina selva, ed appressatosi alla capanna lo depone a' piedi del Santo Pellegrino, il quale ringraziato il Signore di si amorosa provvidenza, si rifocillò nelle forze. Ma praticando ciò il cane ogni giorno e quasi alla stessa ora, mosse la curiosità del padrone a vedere di che si trattasse. Or qual non fu la maraviglia di Gottardo, allorchè seguendo il cane sino alla capanna, vi trova un uomo sdraiato sulla nuda terra, emaciato nel viso, vestito di povero abito da pellegrino! Gottardo a tal vista riconosce in quell’uomo un Santo, di cui il Signore con un miracolo prendeva special cura, e dopo breve colloquio si conferma sempre più nel concetto della santità di Lui; e cosa più sorprendente, tocco dalla grazia divina risolve di abbandonare il mondo e darsi a vita penitente, mettendosi sulle orme del meravi­glioso Pellegrino. Perciò, pregatolo di accoglier lo come compagno delle sue fatiche e della sua vita austera, dopo aver dispensate tutte le sue ricchezze a' poverelli povero anche egli si ridusse in quella solitudine a menare la vita insieme con Rocco in celesti colloqui, e lavorare con Lui in soccorso de' poveri e dei soffe­renti.
Intanto il contagioso morbo che in quel tempo in cui il Santo trovavasi in Piacenza, avea rimesso del suo furore, lui assente maggiormente ingagliardì, che mi­nacciava di lasciar deserta quella città infelice. Non lo ignorava Rocco; ed appena vide si nello stato di poter giovare in qualche modo ai suoi fratelli, lasciato Gottardo nella selva, tosto esce da quella solitudine e si avvia verso 1'ingrata e desolata città. Appena giunto vi opera innumerevoli prodigi di carità, e col segno della croce salva finalmente queg1’infelici cittadini dal minacciato esterminio. Resta salva Piacenza dalla peste, Rocco ritorna alla sua cara solitudine, ove lo attendeva il suo diletto Gottardo.
Intanto alcuni piacentini attirati dalla santità di Rocco, ed ammirando gli svariati portenti da Lui operati lo seguirono in quella selva, e mossi alla grazia divina, abbandonato il mondo e gli agi terreni, gli si offrirono per seguaci in quella romita dimora. Allora Rocco si diè tutto ad ammaestrare quei novelli solitari nella santa carità fraterna, facendo loro intendere come per essa gli uomini anche in terra possano unirsi al loro Creatore. Questi pii solitarii unitamente a Gottardo, guidati dal Santo pellegrino, conducevano colà santa­mente la vita, dimostrandosi veri seguaci della Croce di Gesù Cristo e studiando il modo di addi venire perfetti, secondo gli ammaestramenti del Divin Reden­tore, il quale disse: siate perfetti:, siccome è perfetto il vostro Padre celeste, non andò guarì che Rocco fu in sogno avvisato da Dio che bisognava prepararsi a far ritorno alla sua patria. Quindi appena svegliato, e trovatosi del tutto miracolosamente guarito dal morbo che sino a quel giorno avealo afflitto, risolvette d'incamminarsi per Montpellier. Quale non fu il dolore di quei pii solitarii, massime di Gottardo, all’udire che dovevano già sepa­rarsi dal loro padre e maestro? Quante lagrime di amaro cordoglio non versarono per sì dolorosa perdita? Ma Rocco ubbidiente alla voce di Dio, confortati quei suoi cari discepoli, e raccomandato loro di tenersi fermi nella pratica delle cristiane virtù, e specialmente della carità verso i poveri, prende da essi commiato, e tosto muove verso la Francia.
Era in quel tempo la sua patria agitata da continue guerre, e segnatamente la Linguadoca, ove sulla collina Pessulana sorge 1'antica città di Montpellier, tenuta in feudo dalla famiglia di Rocco.
E siccome i dritti di sovranità de' due pretendenti erano stati in quell’epoca violati da' ministri della corona di Francia, si fu allora che quei due sovrani con la forza delle armi si erano mossi per rivendicar li. In quel tempo appunto, cioè nel 1322, Rocco, dopo lungo e disastroso viaggio, si avvicina a Montpellier. L'aspetto macilento, il pallido volto, e le lacere vesti nol fecero riconoscere; che anzi venne in sospetto che ei fosse una spia, e per ordine dell’istesso suo zio, che allora reggeva quello stato, venne rinchiuso in oscuro carcere.
Son ben fallaci i giudizi degli uomini! Qui pertanto così disponeva il Signore, il quale con replicati e novelli portenti voleva maggiormente glorificare 1'umile suo servo, questo fervoroso apostolo della carità.
Rinchiuso Rocco in quella prigione, non addusse ragione o scusa in sua difesa, nè mosse pure un lamento, adorando invece gl’imperscrutabili disegni della Prov­videnza. Così rimase dimenticato per lo spazio di cinque anni, e rassegnato a' divini voleri tollerò con invitta pazienza la fame, il freddo e tutte le molestie di quel lurido e fetido carcere, offrendo il sacrifizio di sè stesso in olocausto a Dio, pel cui amore Egli pativa. Final­mente per mezzo di un Angelo fu da Dio avvisato essere già terminato il tempo della penosa e tra vagliata sua vita, e che presto riceverebbe dalle mani del giusto Rimuneratore la corona di gloria che erasi procacciata con le eroiche sue virtù. A tale annunzio consolato si il Santo Pellegrino, e confortato in pari tempo da celesti visioni, ricevette con santo fervore i Sacramenti; quindi genuflesso sulla nuda terra e con gli occhi levati al cielo, il. 1327. nella verde età di trentadue anni rese placidamente 1'anima al suo Creatore.
Avvenuta questa beata morte, si vide tosto quel carcere risplendere di sovraterrena luce. A tal vista sorpresi quanti vi accorsero, ed osservato che quello insolito splendore proveniva dal corpo di Rocco, rico­nobbero prima nella novità di un fatto tanto prodigioso 1'opera di Dio, quindi gliene resero grazie, perchè si era degnato manifestare con un evidente miracolo la santità del prigioniero pellegrino. Alla novità del pro­digio, già divulgato per tutta Montpellier, accorse pure alla prigione il Governatore; ma qual non fu la sua sorpresa nel vedere allato dell’estinto una tavoletta ove era scritto il nome di Rocco della Croce, dichiarato da Dio protettore degli appestati? Riconobbe subito in quell’umile pellegrino, da Lui reputato una spia, il santo suo Nipote, e vie più se ne confermò quando osservò sul petto di lui il segno della Croce di color rosso, col quale Iddio lo aveva segnato in sin dal suo nascere.
Riconosciuto così maravigliosamente il cadavere del beatissimo Rocco, ci è facile comprendere quali furono i sentimenti di dolore, di ammirazione e di gioia del parentado e di tutta la città; quante lagrime di amaro cordoglio versasse lo zio per la sua involontaria crudeltà usata col santo suo Nipote, e quante lagrime di grati­tudine spargessero quei cittadini sul cadavere del loro antico Signore. Ed al pentimento successe immediata­mente una condegna riparazione. Il corpo di Rocco fu portato come in trionfo per le vie di Montpellier e poscia esposto nella principale Chiesa di quella città, ove dopo splendidi onori, fu collocato in un sontuoso sepolcro, sulla cui lapide vennero scolpite quelle istesse parole ritrovate scritte su quella tavoletta veduta al lato del Santo nella sua prigione, le quali recate nel nostro idioma dicono così: Fa noto che tutti i travagliati dalla peste, i quali ricorreranno al patrocinio di Rocco della Croce, saranno dal ferale contagio liberati.
Ben presto la fama della santità di Rocco si sparse per la Gallia narbonese, e maggiormente si diffuse per gli stupendi ed innumerevoli prodigi avvenuti sul suo sepolcro. Ed infatti non andò guarì che manifestatasi ne' contorni di Montpellier una contagiosa malattia, tutti accorrevano a quella città, e col solo appressarsi al sepolcro del Santo ne ritornavano miracolosamente guariti, e fra questi l'istesso Arcivescovo del luogo, il quale per nessun mezzo poteva liberarsi dell’ostinato morbo. Da questo e da altri innumerevoli prodigi, che sarebbe lungo voler numerare, crebbe maggiormente la fama della santità di Rocco, e ben presto si divulgò per 1'intera Francia, e poscia per gli altri stati di Europa. Quasi tutte le città cl’Italia, di Francia e di altri regni sperimentarono la sua efficace protezione, ed in segno di gratitudine eressero tempii ed altari del suo titolo. La Chiesa istessa ne riconobbe il suo valevole patrocinio sin dal 1414, allorquando stando essa riunita :in ecumenico Concilio nella città di Costanza, i Padri di quel venerabile consesso vennero liberati dal furore della peste per la intercessione di Rocco, la cui immagine fu portata in processione per quella città.
La nostra Scilla poi ne fu in particolar modo protetta. Nelle avversità, ne' pericoli, nelle infermità sopratutto pestilenziali, che in altri tempi desolarono le città ed i circonvicini paesi, Scilla sperimentò sempre la protezione di Rocco. E questo singolar patrocinio, siccome per lo passato non venne mai meno, così neppur verrà meno per lo avvenire, se i pii Scillesi seguendo le orme de' loro maggiori imiteranno le virtù del loro Santo Patrono, specialmente la sua ardente carità e verso Iddio e verso i loro fratelli.

 

IL CULTO DI SAN ROCCO A SCILLA
Scilla, città antichissima, la cui storia si confonde con la favola, è la prima in questa vasta Archidiocesi reggina, che si gloria di aver presta lo specialissimo culto a S. Rocco, suo insigne patrono. Ed in vero il culto, onde i popoli onorarono quest’inclito eroe di carità, rimonta fino al 1327, epoca del suo glorioso transito. Infatti per gli strepitosi prodigi avvenuti im­mediatamente dopo la sua beata morte, i popoli inco­minciarono ad averlo in venerazione, ricorrendo a Lui nelle loro necessità, specialmente in tempo di pestilenza, che allora più che mai travagliava l'Europa; e furono tanti i prodigi avveratisi sul suo sepolcro, che e Mont­pellier e tutte le vicine terre, castella e città della Gallia narbonese riguardavano Rocco come speciale patrono contro la pestilenza ed altri morbi contagiosi. Anzi lo zio stesso di Rocco potè innalzare in Mont­pellier alla memoria del santo Nipote, un sontuoso tempio, ed ivi collocare il suo corpo. Perciò conchiudono i Bollandisti che la pubblica venerazione alla santità di Rocco cominciò una col felice transito di Lui al cielo. Ciò vie più si conferma dal fatto che 45 anni dopo la Sua morte, cioè nel 1372, il Maresciallo di Francia Giovanni Meìngro di Bouciaut otteneva per autorità della Santa Sede il sacro corpo di Rocco, e trasferendo una buona parte di quei preziosi avanzi in Arles, riponevali nella Chiesa de' Frati Trinitarii. Il resto di quel sacro deposito fu traslato in Venezia nel 1485.
Ma checchè ne sia di questo antichissimo culto prestato a Rocco dal fervoroso ed unanime consenso di quei popoli, non punto contrastato dall’autorità eccle­siastica, egli è certo che nel 1415, allorquando Costanza in un modo prodigioso fu liberata dalla peste per la intercessione del Santo, invocato da' Padri colà riuniti per 1'Ecumenico Concilio, da quel tempo si può dire che veramente fu proclamata ed approvata la Santità di Rocco, e dichiarar lo solenne e pubblico il culto di Lui. Infatti da quel memorando avvenimento cominciò a propagarsi per tutte le parti di Europa il culto a S. Rocco, ed allora, come asserisce il Baronio nelle sue note al Martirologio Romano, dapertutto furono eretti altari e tempii in suo onore, dapertutto cominciarono a venerarsene le immagini. Nel far ritorno gl’Italiani da quel Concilio, diffusero il nome e la notizia de' miracoli del Santo in queste nostre contrade; ed i popoli, che in quel tempo erano afflitti dal flagello della peste, ricordando i prodigi di carità operati da Rocco in Italia un secolo avanti, con giubilo e fervore ricorsero al suo patrocinio. Né vennero deluse le loro speranze, giacché provarono efficacissima la sua virtù e valevoli i suoi meriti appresso Iddio.
Scilla non fu certo una delle ultime città d'Italia, che erigesse un tempio al glorioso S. Rocco; e sebbene non possiamo con precisione determinare l'epoca, pure non andremo lungi dal vero stabilendola verso la fine del 1400 o ne' primordii del 1500; cioè in quel periodo di tempo in cui i Veneziani, ricevuti i sacri avanzi del corpo di Rocco (1485), pieni di santo fervore erano intenti ad erigere in suo onore un tempio sontuoso, ove nel 1520 collocarono definitivamente quelle sante reliquie.
Monsignor D. Annibale d'Afflitto Arcivescovo di Reggio, nell’eseguire nel 1594 la sua prima Santa Visita in Scilla, fra le altre chiese visitava ancora quella di San Rocco, ove (così negli Atti della stessa) est Confrater­nitas sub vocabulo S. Rochi (Ecco un epoca certa che si rileva da un documento autentico, ed il più antico esistente nella Curia Arci­vescovile di Reggio, che parla delle Chiese di Scilla.
Dunque nel 1594 erano già in Scilla eretti il tempio e la confraternita di S. Rocco, e non vi erano fondati di fresco. Chi poi volesse far congetture non improbabili intorno all’epoca dell’introduzione di questo culto in Scilla, non pare (come dicevamo) che andrebbe lungi dal vero riportandola tra la fine del secolo XV e il principio del seguente.
E una prima indagine può aversi dall’antica statua marmorea del Santo, che si venera sul maggiore altare della sua chiesa. Posa questa statua sopra uno zoccolo separato, di forma parallelopipeda, che porta ne' tre lati principali un grazioso bassorilievo ad ornato. La stessa qualità di marmo pario greco a grana finissima, tanto dello zoccolo quanto della statua, il perfetto adattarsi de' due pezzi, lo stesso grado di colore e di conservazione, convincono ognuno che sì la statua come lo zoccolo furono eseguiti da due diversi scultori, ma nel medesimo tempo; ovvero che 1'autore dello zoccolo sia quello stesso che ha modellata la statua. Chi preferisca questa seconda ipotesi non può non osservare che quest’unico autore non era egualmente abile ne' due generi, giacchè lo zoccolo porta un fregio di stile e di esecuzione perfetta, mentre altrettanto non si può dire della sovrapposta immagine.
Povera di concetto ne è la forma. Il Santo è avvolto tra soverchi panneggiamenti, non adatti al carattere di chi intraprende un viaggio. La faccia è scontorta, i piedi fuori proporzione, e finalmente il piccolo angelo che trovasi alla sua sinistra in piedi ha tutto il corpo, e specialmente il braccio destro, in una posizione poco o nulla spontanea e naturale. Or è tra­dizione qui in Scilla, che questa immagine sia venuta da Venezia, e ciò per le relazioni commerciali in cui si trovavano con la Regina dell’Adriatico i nostri antenati, i quali trasportavano colà ed olii e sete grezze ed altre merci di queste nostre contrade, e di là spesso ripor­tavano e dipinti e marmi ed altri oggetti preziosi, per decorare le nostre Chiese. A prima giunta parrebbe che in quell’epoca cosi celebre per le arti in Venezia non potesse venir fuori quella statua. Ma se ben si consideri, 1'imperfezione stessa di quel lavoro conferma per indi­retto la nostra tradizione circa la provenienza di quel monumento, e la nostra congettura intorno all’epoca del trasporto di esso.
E per vero in Venezia l’arte nazionale surse tardi, le opere degli artisti veneziani cominciarono dal secolo XI, quando il Doge Domenico Selvo fe' venire artisti greci per ornare di mosaici la Basilica di S. Marco. Comunque sia, l’arte crebbe colà dopo il 1204, epoca in cui da' Crociati fu presa Costantinopoli, perchè allora Venezia fu in breve tempo ripiena non pure di artisti, ma di pitture, di statue, di bassorilievi greci. I maestri che distinguono quest’epoca di transizione in Venezia, come quasi in ogni luogo, ritengono qualche orn1.a della antica ruvidezza medioevale, e come naturalisti copiano dal vero qualche volta forme imperfette. Or la statua di S. Rocco presenta questo carattere, che la rimande­rebbe per sè ad un epoca anteriore a' primordi del 1500.
La statua del Santo è di grandezza al naturale o quasi. Indossa la tunica che va fin sopra il ginocchio, succinta con cingolo a' lombi e fornita di batolo. Alla tunica è sovrapposto un largo mantello non certo da pellegrino, con gran collare riverso ed affibbiato al collo. Il mantello è brevissimo sul davanti ed è poi lunghis­simo di dietro sino a toccare il terreno. Il Santo porta internamente i femorali, come pure gli stivali da viaggio; si appoggia con la destra al bordone, ch' è anche esso di marmo, e con la sinistra alza il lembo della tunica per mostrare il gavocciolo sull’alto del femore. Dietro la spalla sinistra vi è sospeso il cappello pure in marmo. Alquanto grosso è il collo; la testa anch’essa su pera un poco le debite proporzioni. La tunica ed il largo man­tello nella parte inferiore sono dipinti di un verde oscuro, ed i lembi de' medesimi, come pure de' femorali e de' calzari, sono orlati di oro, al pari de' capelli del Santo, alla cui sinistra si osserva un Angioletto in piedi con le ali e i capelli anche dorati. Questo Angioletto, che con la sinistra mostra nella persona del Santo l'ulcere della peste, è di forme esilissime e graziose, e va con tutta la statura sin poco più su le ginocchia del Santo: è in veste talare anche orlata di oro, senza maniche, trattenuta a' lombi dal cingolo nascosto sotto il lembo riboccante. Un’altra esterna cintura dorata lo circonda al petto. La statua del Santo, dalla mancanza di moto, di proporzioni, dell’abito superiore male adatto per un pellegrino, e segnatamente dalle dorature, costantemente in uso presso la scuola bizantina, sembra certo che sia lavoro di qualche oscuro scultore di quella scuola di cui non eran pochi in Venezia, ove durò per molto tempo dopo, il gusto per quello stile altrove decaduto, che specialmente nel 1400 vie più crebbe, perchè colà giornalmente prendeva stanza una miriade di artisti bizantini, i quali fuggivano da Costantinopoli, mano mano che si avanzava la potenza Musulmana, e di Venezia non se ne sradicarono, anzi trasmisero sino a tarda età il gusto per quello stile.
Una seconda congettura circa l'antichità del culto scillese per S. Rocco ci vien fornita dalle due reliquie del Santo, che nella Chiesa a Lui dedicata religiosa­mente si conservano.
Fra gli altri bellissimi dipinti recati da Venezia da' nostri antenati e che tuttora si ammirano in Scilla, vi è anche quello di S. Francesco di Paola, pittura in tavola, esistente nella Chiesa dello Spirito Santo, dove in fondo dorato è ritratto a tinte oscure il Santo Taumaturgo Calabrese, ed in giro si osservano diversi miracoli operati dallo stesso. Sembra inverosimile che all'epoca del risorgimento della Scuola Veneziana, quando appunto si ammiravano colà le opere di Tiziano, del Tintoretto, de' due Palma, di Paolo Veronese e di tanti altri insigni pittori, sia stata eseguita un'opera di puro stile bizantino. E pure è un fatto che quella pittura rimonta all'epoca del risorgimento delle arti, giacchè il Santo fu canonizzato da Leone X nel 1519, dodici anni dopo la sua morte avvenuta nel 1507. Il nostro quadro viene registrato da Monsignore d'Afflitto anche negli atti della Santa Visita del 1594. periti dell’arte per l'aponsi acromion che fa parte della scapola. Quest’osso è quasi intero, ma vedesi solo un po' scheggiato e rotto dalla parte dell’apice, ed è so­stenuto da quattro uncinetti in una teca di argento. Esso è lungo millimetri 45, largo dalla parte della base millimetri 26, e dalla parte dell’apice millimetri 15. L'altra reliquia è un pezzetto di osso, lungo millimetri 17, mentre è tondo da un lato e dall’altro va a finire in punta. Non si è potuto determinare a qual parte del corpo quest’osso appartenga, giacchè è tutto intero incastonato nell’argento, restando scoperto solamente da un lato. Le autentiche saranno state rinnovate più volte. Qui abbiamo solamente quelle di Monsignor D. Alessandro T'ommasini Arcivescovo di Reggio, del 23 Maggio 1822. La tradizione patria assevera che queste reliquie furono portate da Venezia. Non altro che la fervorosa pietà e divozione de' nostri antenati e la loro influenza potevano ottenere tanto segnalato favore; e ciò doveva avvenire in quel giro di tempo in cui quei preziosi avanzi erano collocati in luogo provvisorio, cioè dal 1485 al 1520, giacchè in quest’ultimo anno furono riposti per sempre nell’urna di marmo collocata sopra. Giovanni Francesco Ciappetti, antico scrittore della vita del Santo, che nel 1600 descriveva ancora quell'insigne monumento di arte che sorge in Venezia, cioè l'augusto tempio dedicato a S. Rocco e l'attiguo fabbricato della Scuola ossia Arciconfraternita, fa osservare che trasferite colà nel 1485 le reliquie di S. Rocco furono collocate provvisoriamente in una Chiesetta (che non nomina) presso quella di S. Silvestro, ove restarono sino al 1520, epoca in cui furono collocate definitivamente nell'urna. Egli soggiunge, che il ritardo di ben sette lustri non deve attribuirsi a trascuratezza de' pii Veneziani, ma solo alla mancanza in quel tempo di architetti e scultori eccellenti. Sembrerebbe doversi accettare con riserba questa assertiva dello Ciappetti, sebbene Egli sia un antico scrittore che narra fatti avvenuti soltanto un secolo prima. Ma se da una parte si riflette al grandissimo terrore che in quei tempi destava negli animi la sola idea della peste, la quale dal 1060 al 1480 avea 32 volte desolata l'Europa e 14 fiate nel solo XLV secolo; e dall'altra se ben si considera il sentimento religioso di quel secolo che in Dio e nella protezione de' Santi riponeva tutta la fiducia in simili sciagure, donde l'ardente desiderio di erigere subito un novello tempio per onorare le l'altare maggiore, alla quale urna fu sovrapposta la statua del Santo. Colà tuttora si conservano, e quindi era impossibile poterle estrarre in epoca. posteriore e darne in dono sì notevole quantità. E così ci troviamo sempre tra il 1400 ed il 1500. Le stesse piccole strisce di carta incollate sulle dette reliquie, ove in quella dell’apofisi acromion si legge: S. Rochus e nell’altra: S. Roce C. indicando abbastanza, con la calligrafia ed ed il modo di scrivere quel nome, un’epoca assai re­mota. Or se è un fatto indubitato che in quel periodo di tempo si ebbero gli Scillesi le reliquie del Santo, mentre nè prima del 1485 nè dopo il 1520 potevano averle, siam costretti conchiudere che appunto nella epoca da noi congetturata, sia stato introdotto in Scilla il culto di S. Rocco.
Nè bisogna lasciare inosservato un fatto che dimostra come i nostri antenati abbiano voluto imitare i divo ti Veneziani anche in questo, cioè di unire S. Rocco con S. Sebastiano. Infatti a questo Santo Martire fu eretto in Venezia un tempio, ove ammiransi le più classiche le reliquie di tanto insigne protettore, tutto ciò fa ragionevolmente ammettere, che il ritardo di ben sette lustri abbia potuto veramente derivare dalla mancanza in quel tempo di celebri architetti e scultori. Infatti diroccata, come narra lo stesso autore, nel 1485 l'antica Chiesa del Santo. si diè principio alla fabbrica del novello tempio verso il 1494 e dell'attigua fabbrica della Scuola verso il 1516 sul disegno e colla direzione di Bartolomeo BOD, il quale designò pure l'altare maggiore, eseguito poi dal Venturino. Nel 1524 vi compariscono due altri valenti scultori Sante e Giulio Lombardo, e nel 1527 il celebre Scarpagnino, l'autore dell'incantevole facciata di quell’Arciconfraternita, il quale nel 1536 si associò al Sansovino nella continuazione di quei lavori. Il Campagna esimio scultore vi comparisce più tardi. Or in quel periodo di tempo designato dallo Ciappetti, se ne eccettui il Bon, non si vedono scultori eccellenti per la esecuzione di quei lavori, e ciò ha potuto avvenire per circostanze impreviste o per fatti successi, che noi ora non possiamo conoscere. pitture di Paolo Veronese, come in quello di S. Rocco i più be' dipinti del Tintoretto. Ora in quest’ultimo tempio il Santo Martire trovasi a lato di S. Rocco sull’altare maggiore, e nell’attigua scuola si vede S. Sebastiano sopra un altro altare, opera, come la statua del Santo titolare, del Campagna. Vi si vede ancora lo stesso S. Martire in un quadro del Negri; che unitamente alla SS. Vergine, a S. Marco ed a S. Rocco fuga la peste da Venezia. E così in un affresco, che è del Pordenone, tagliato dal prospetto dell’antico tempio di S. Rocco, e che ora è collocato nel corridoio che dalla sagrestia conduce alla chiesa del Santo. Anche vi si trova nella Chiesa di S. Giacomo Apostolo detta dell’Orio con S. Rocco e S. Lorenzo nella prima gran tavola a destra dell’organo, bella fattura di Giovanni Buonconsigli. E tale unione abbiamo anche osservata in altre pitture forse appartenenti un tempo a diverse Chiese, ed ora collocate nell’Accademia di belle arti di quella città; come nella Sala XVI ve ne sono due a' numeri 535 e 556, il primo di Bartolomeo Montagna, ed il secondo di Sebastiano Florigerio, e nella vicina Sala XVII, al N. 584, ve n'è un altro di Giovanni Mansueti. Del pari adunque i nostri antenati, volendo in questo anche imitare i Veneziani, vicino alla Chiesa di S. Rocco ne hanno eretto un’altra a S. Sebastiano, che pure nel 1594 era visitata da Mons. d'Afflitto. Questo tempio già logoro per vecchiezza, col tremuoto del 1783 rovinò in maniera tale, che non risorse più; oggi rimane solo il nome di S. Sebastiano che si dà al luogo ove la chiesa sorgeva, ch’è appunto in sul prin­cipio della piazza S. Rocco.
Ed in vero in quei tempi di fervore religioso e di gran divozione, quando la peste era così terribile, che menava ovunque strage e sterminio, i fedeli anzi che agli umani rimedi, ricorrevano più volentieri al patro­cinio de' Santi, e segnatamente a quelli che dalla Chiesa erano designati come Protettori in tali sventure. E sventura irreparabile era la invasione di quel morbo contagioso, così frequente in quei tempi. Ne' secoli primitivi del cristianesimo la Chiesa aveva eletto San Sebastiano a protettore degli appestati. Infatti sul cadere del settimo secolo (680), come attestano Paolo Diacono, Anastasio Bibliotecario, il Baronia ed il Muratori, questo S. Martire fu scelto a difensore di Roma e di Pavia, allora travagliate da atroce pestilenza, anzi la Chiesa invoca particolarmente la protezione di S. Sebastiano nelle preci che recita in tempo di peste.
E similmente non crediamo superfluo qui mettere in rilievo un’altra circostanza per confermare sempre più 1'antichità del culto prestato a S. Rocco in Scilla, e la sua provenienza. Le antichissime immagini del Santo furono scolpite o dipinte senza il cagnolino, come in tempi più recenti venne praticato per ricordare il noto fatto storico della sua vita. Ed invero le due statue che abbiamo osservate in Venezia, quella dell’altare maggiore della Chiesa, ch' è la più antica, fattura di Bartolomeo Bon, manca del cagnolino; 1'altra della Scuola, ch' è di Girolamo Campagna, è vero che porta a' piedi del Santo il cagnolino col pane in bocca, ma il cagnolino non è opera di questo celebre scultore, si bene d'ignoto autore e di un’epoca recente. Nell’esa­minare le predette statue abbiamo pure osservato che alle due estremità del collare non vi erano, come di costume, le due conchiglie, nè abbiamo veduta la zucca da bere, solito arnese del pellegrino. Ora del pari la statua di marmo del nostro S. Rocco manca del cane e del resto, appunto come le più antiche. Oltre la statua di marmo che si venera sul maggiore altare di S. Rocco in Scilla, in detta Chiesa ve n'è un'altra, bellissima scultura in legno, che certo non rimonta all'epoca in cui fu eseguita la prima. Ignoriamo dove sia stata fatta, e l'autore che l'abbia scolpita. Questa statua non manca del cagnolino, nè delle conchiglie, che si veggono alle due estremità del batolo, nè della zucca.
I nostri antenati che per le loro relazioni commer­ciali erano in continuo contatto co' Veneziani, portando di là questo culto, l’hanno introdotto con quelle circo­stanze onde si praticava colà verso la fine del 1400.
Finalmente a tutte queste prove aggiungiamo la costante tradizione tramandataci da' nostri antenati, che Scilla da tempo immemorabile fu sempre esente da peste per 1'intercessione di S. Rocco. Donde ne derivò che la fiducia nella sua protezione fu sempre radicata nell’animo degli Scillesi, i quali col fatto ne sperimen­tarono il singolare patrocinio nelle diverse pestilenze che straziarono per lo passato le vicine città, special­mente in quella del 1743, non avendo delle altre certe e sicure notizie. Ed in vero in questa ultima pestilenza, che desolò la vicina Messina, Reggio ed altri paesi limitrofi, Scilla per miracolo ne fu preservata. Infatti nessun altro paese trovavasi in continue relazioni con Reggio come Scilla; perchè da qui partivano giornal­mente viveri e soccorsi agli appestati, da qui le corri­spondenze tra il Governatore di Reggio Diego Ferri ed il Preside della Provincia Domenico Giuseppe Basta, allora residente in Scilla. Ed allorquando quest'ultimo, costretto per debito del suo ufficio a recarsi spesse volte in Reggio, disgraziatamente tornando nel 1744 attaccato da peste, morì in Scilla e fu sepolto nella Chiesa del SS. Rosario, così introdotto qui il morbo fatale non si è propagato. Questo fatto venne ritenuto come un miracolo ed uno speciale favore del Santo Patrono verso gli Scillesi, i quali grati per tanto segnalata protezione, ripigliarono con più alacrità la costruzione del novello tempio già cominciato sin dal 1738, che poi portarono a compimento nel 1751.
Il chiarissimo scrittore di archeologia e di storia patria, D. Antonio De Lorenzo Canonico della Metropolitana di Reggio, ci ha fatto vedere una medaglia argentea di S. Rocco, fatta coniare dagli Scillesi appunto nel 1743, Qui abbiam rinvenuto un Martirologio del passato secolo, dove sotto il dì 16 agosto, annunziata la festività del Santo, si vede questa aggiunta manoscritta: Civitas Scyllae a dieta Divo pl'otecta ae sa.rta teeta serva.ta a peste, quae anno 1743 grassabatur Messanae, Rhegii, aliisque fìnitimis laeis, Patronum et Proteetorem sibi elegit, eujus hodie solemne festum celebrato
Ci venne altresì fatto di rinvenire (fra tante reliquie patrie smarrite) un ufficio del 1745 proprio di S. Rocco, stampato in Roma nella tipografia Camerale, ove il Santo è dichiarato Patrono principale della città di Scilla, ed il rito della festività è doppio di prima classe con l'ottava. Crediamo che tanto favore abbiano potuto ottenere in Roma i nostri antenati per mezzo del dotto loro concittadino Monsignor D. Diego Andrea Tomacelli Vescovo di Marsico Nuovo, che dimorava da circa 20 anni colà come professore nel Collegio de' Pizzardoni. E sebbene 1'esimio Prelato sia stato eletto Vescovo di Marsico da Benedetto XIV il 13 Settembre 1744, e prese possesso della sua chiesa il 10 Dicembre di detto anno, pure non entrò in Diocesi che nel 1745, giacchè la presa di possesso fu fatta con procura in persona del Vescovo di Montepeloso D. Cesare Rossi, il quale allora trovavasi in Marsico sua patria.
Ritrovammo ancora un altro officio stampato in Messina nel 1790 pe' tipi dell’Ospedale Maggiore, con l'approvazione del R. D. Domenico Marrara Maestro delle cerimonie della Chiesa Metropolitana di Reggio. l'anno terribile della pestilenza. che desolò Messina e Reggio sino a' confini Scillesi. Nella destra vi è il Santo messo nel consueto arnese di pellegrino: da un lato ha il cagnolino col pane in bocca, dall'altro un angioletto mostra nel Santo l'ulcera della pestilenza; in giro corre la leggenda: D. Rochus Civit: Scyllae Pat. 1743. L B. (nome dell'incisore). Nel rovescio è uno scudo sormontato dal bordone, il cappello e la conchiglia, emblemi del pellegrinaggio. Nello scudo sta scritto questo esametro: In remore est ulcus: vita est ex ulcere nobis.
Con questi documenti la Rev.ma Curia di Reggio nel 1880 permetteva che fosse ristampato il predetto officio. Abbiamo avuto ancora il piacere di ritrovare in questi ultimi tempi due antichi Brevi Ponteficii, uno di Urbano VIII del 30 Luglio 1636; e 1'altro di Clemente XIII del 27 Novembre 1760, co' quali si accordavano indulgenze plenarie a tutti i fedeli, che debitamente disposti visitavano la Chiesa del Santo nel giorno a lui dedicato, il che mirabilmente prova la fervorosa divozione, che il popolo Scillese da tempo remoto ha S81npre prestato al suo Santo Patrono.

Ed ora che alla peste quasi scomparsa in Europa subentrarono altre contagiose malattie, è cre­sciuta negli Scillesi la divozione al tanto benemerito loro Protettore. Infatti sin dal 1862 con fervore inaudito si ebbe la felice idea di diroccare quasi una metà della antica chiesa e quindi ingrandir la, dando alla medesima forme architettoniche più regolari ed eleganti, decoran­dola di stucchi e di marmi; e così oggi Scilla possiede fra gli altri un tempio assai bello e sontuoso, che testimonia la munificenza e la singolare pietà degli Scillesi, e resterà a' posteri qual monumento della religiosa pietà che in ogni tempo si è professata verso questo Santo Taumaturgo, che con un segno di croce ci libera dalla peste e dell’anima e del corpo.
Abbiam creduto raccogliere questi cenni sulla antichità del culto, che Scilla ha prestato all’inclito suo Patrono, affinchè non avessero a subire la stessa sorte di tante altre memorie, forse più rilevanti, che andarono smarrite, ed anche perchè i devoti Scillesi, leggendo queste poche pagine, sull’esempio de' loro antenati, non tanto ne' mezzi umani quanto nel patro­cinio del misericordioso Iddio e del loro singolar Protettore ripongano la loro fiducia d'essere preservati dalle continue malattie contagiose, che in questi nostri tempi travagliano l'umanità.


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